Arch. Giulio Dagostini

Tempo di lettura: 4 minuti

La decisione del Ministero di bloccare l’abbattimento dell’ex stazione autocorriere – sala Tripcovich ha incredibilmente rispolverato un dibattito che sembrava sopito da tempo. Vista la nostra partecipazione a questo progetto vorremmo proporvi alcuni spunti di riflessione.

Storicamente l’edificio, progettato dall’ingegner Baldi con l’apporto successivo di Nordio, fu realizzato a tempo di record per far fronte all’impellente necessità di risolvere il problema del traffico delle corriere che, agli albori degli anni ’30, era in forte espansione. La posizione era strategica, a cavallo fra la stazione e l’idroscalo, poco importava se si dovesse sacrificare un giardino in cui troneggiava il monumento all’imperatrice Elisabetta. L’area verde era speculare rispetto a quella tuttora esistente davanti alla stazione e venne man mano mangiata dal bisogno di migliorare la viabilità carrabile. Finita la sua vita utile di stazione (dimensioni e altezze dei moderni pullman mal si adattavano al vecchio edificio) si ritrovò ad essere una sala teatrale per supplire nuovamente ad una nuova necessità impellente: sostituire il teatro Verdi ed il Rossetti chiusi per restauro. Una soluzione temporanea, ma che, come spesso accade, divenne quasi permanente. Qui sta il punto più difficile da digerire: perché perdere uno spazio culturale anche se invecchiato precocemente?

Fino a qualche tempo fa, l’idea che la barriera fra la città ed il Porto Vecchio potesse cadere sembrava un lontano miraggio. In virtù di questa separazione, la sala Tripcovich, con la sua mole era l’edificio che concludeva Piazza Libertà, un palazzo di sfondo, al di là del quale si estendeva un mondo quasi sconosciuto. Ebbene, il Porto Vecchio possiede sostanzialmente due accessi: se escludiamo il nuovo varco su viale Miramare abbiamo soltanto la zona del Molo IV, accessibile dalle rive, e Piazza Libertà, attraverso i portali realizzati dall’architetto Giorgio Zaninovich nel 1914. Viene da sé che queste due zone, poste sempre un po’ al limitare della vita cittadina, diventino improvvisamente di centrale importanza se il vecchio scalo si congiungesse con il tessuto cittadino e viene da sé che la loro valorizzazione, per garantire la migliore connessione possibile, diventi a questo punto cruciale. L’accesso da Piazza Libertà poi acquisisce un ruolo di primo piano, in quanto si pone in connessione con la Stazione Centrale e la nuova stazione delle autocorriere, per così dire le moderne “porte” d’accesso alla città.

In questo scenario la Sala Tripcovich non è più un edificio di sfondo, messo a presidio di una zona marginale, ma un blocco che si interpone su due zone che dovrebbero essere comunicanti, un po’ come se due persone cercassero di dialogare, ma fossero ostacolate da un muro che le separa.

Facciamo un esempio. Agli inizi del 1800 Piazza Unità non aveva un affaccio sul mare. Il porto e le rive erano un’entità separata e nella piazza c’erano persino una chiesa ed un teatro che, gradualmente vennero sacrificati per arrivare alla sistemazione attuale. Ad inizio del ‘900 c’era pure un giardino che ostacolava la vista sul golfo! Quegli edifici, quegli spazi facevano parte di un patrimonio culturale collettivo, la testimonianza delle memorie dei nostri antenati che evidentemente non avranno da subito apprezzato il cambiamento. Avranno pensato che la loro città, quella che vivevano ogni giorno, che faceva parte delle loro abitudini e dei loro ricordi sarebbe stata cancellata ed è facile pensare che non percepissero esattamente il disegno generale che l’avrebbe sostituita. Tuttavia, al giorno d’oggi quanto vale per noi questa memoria? Probabilmente il giudizio di noi contemporanei ci
porta a dire che la scelta fu buona e che l’abbattimento fu un sacrificio necessario: è vero infatti che parte della nostra storia è andata persa, ma è stata sostituita da uno spazio che è diventato di fatto il simbolo stesso di
Trieste e su cui noi proiettiamo le nostre azioni e la nostra stessa storia. Non solo, il teatro che venne demolito nell’allora Piazza San Pietro – così si chiamava all’epoca – venne sostituito dall’attuale Teatro Verdi (che allora si
chiamò per l’appunto Teatro Nuovo). Il fatto che la piazza un tempo fosse diversa è solo un capitolo della storia di Trieste che continua e prosegue giorno dopo giorno.

Recentemente ho avuto modo di rivedere il film le Crociate di Ridley Scott, sul finale mi ha colpito un curioso dialogo. Il difensore di Gerusalemme, Baliano di Ibelin (Orlando Bloom), nel consegnare la città al Saladino domanda quale sia il valore della Città Santa. Il Saladino prontamente risponde “Niente…”e, subito dopo, sorridendo soddisfatto “Tutto!”. Cosa ci dice l’ambigua risposta del saggio Saladino? Banalmente che il valore
delle cose è mutevole e cambia a seconda delle nostre prospettive. Ciò che oggi sembra essere importante ed imprescindibile, domani potrebbe non esserlo più e viceversa. Questo processo è alla base del cambiamento e dell’evoluzione del nostro mondo. Le nostre città, ad esempio, sono il prodotto di un lunghissimo processo di trasformazione e proprio questa stratificazione che abbraccia i secoli è alla base del loro fascino.

Ma come scegliere cosa conservare e cosa eliminare? Entrambe le scelte hanno i loro svantaggi: eliminare qualcosa è chiaramente un processo irreversibile, una volta distrutto, un oggetto è perso per sempre,mentre un
atteggiamento eccessivamente conservativo può inficiare qualsiasi possibilità futura di trasformazione ed evoluzione. Per uscire da questa empasse ed avere un’opinione più serena forse è necessario distogliere lo sguardo dall’oggetto delle nostre scelte e guardarsi attorno. Se guardiamo al di là della Sala Tripcovich ci accorgeremo che oltre quei portali ora seminascosti si estende una città intera, nuova, ricca di spazi che potrebbero diventare quei luoghi d’arte,di cultura, aggregazione che chi sostiene la conservazione della sala giustamente vorrebbe promuovere. E’ lì che si concentreranno e scontreranno le diverse prospettive sul futuro di Trieste e la sfida per i prossimi anni sarà rendere quell’area un fulcro economico e culturale vivo.

Se facciamo questo sforzo immaginifico capiremo che la sfortunata Sala Tripcovich sembra perciò solo un paravento o una sorta di ultima ridotta che ci impedisce di guardare un po’ più in là.

Pin It on Pinterest